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Bentornati a Il riepilogo mensile!
Ultima newsletter dell’anno – o forse prima, dipende da quando la leggerete. C’è parecchio materiale, quindi non mi dilungherò nell’introduzione. Mi limito a ricordarvi che un paio di settimane fa è uscito un numero speciale con il riepilogo annuale, pieno di statistiche inutili e premi ben poco ambiti. Siamo ancora in atmosfera da bilanci di fine anno, dopotutto.
In questa newsletter:
- 📖 Letture: ho letto Contact (il libro) perché non ho mai visto Contact (il film).
- 🎞️ Visioni: Sandokan! Sandokan! Giallo il sole la forza mi dà.
- 🕹️ Backlog: la più grande sorpresa videoludica del 2025.
- 🔗 Link: ritorno alle riviste cartacee e altre cose belle trovate su Internet.
Buona lettura!
Ogni mese scrivo di quello che leggo, vedo, ascolto, gioco. Ci si iscrive qui sotto.
📖 Letture
Una rubrica in cui parlo dei libri che ho avuto sul comodino negli ultimi tempi.
Un mio amico – lettore di questa newsletter, ma se lo conosco bene preferisce rimanere anonimo – dopo aver visto il film Arrival commentò che gli era sembrata una cattedrale costruita su degli stuzzicadenti. Qualsiasi cosa volesse dire, io ho avuto la stessa sensazione leggendo Contact di Carl Sagan (1985, letto nell’edizione Urania Mondadori pubblicata nel 2025; traduzione di Fabrizio Ascari).

La dottoressa Ellie Alloway è la direttrice del Progetto Argus, che ricerca forme di vita extraterrestri mediante enormi radiotelescopi. Proprio quando il progetto sta per essere chiuso, dalla stella Vega arriva un segnale: una sequenza di numeri primi, che viene decodificata e diviene ben presto nota come il Messaggio. Chiunque lo stia trasmettendo, vuole che l’umanità costruisca una Macchina. Ma a quale scopo?
Non sono particolarmente interessato al tema della vita extraterrestre, ma ho preso questo volume in edicola per un motivo piuttosto particolare: nel 1997 ne è stato tratto un film – diretto da Robert Zemeckis e interpretato da Jodie Foster e Matthew McConaughey – che mi ha sempre intrigato ma che non sono mai riuscito a vedere1. Forse, in fin dei conti, avrei fatto meglio a recuperare il film, che sembra uno dei rari casi in cui la trasposizione cinematografica è più apprezzata dell’originale.
La verità è che non credo di essere il lettore ideale di questo libro. Il suo autore, Carl Sagan, è stato un importantissimo scienziato del Novecento, e nello specifico uno dei più famosi astronomi e astrofisici di sempre. Accanto a una vastissima produzione scientifica, che comprende articoli e libri di divulgazione, Sagan ha scritto un unico romanzo: Contact, appunto. Inevitabilmente, questo libro ha ben poco del romanzo e molto dell’opera di divulgazione.
Buona parte dell’opera è costituita da digressione teoriche o scientifiche, con lunghi paragrafi (o dialoghi tra personaggi) che analizzano il funzionamento dei radiotelescopi, o il modo in cui vengono captati i messaggi dallo spazio, o ancora il processo di costruzione della Macchina. E poiché uno dei temi portanti del romanzo è il contrasto tra scienza e fede, ci sono altrettanti brani che indagano questo dualismo, con riflessioni teologiche e filosofiche piuttosto complesse. Non c’è nulla di tutto male in questo – e Contact è sicuramente un romanzo che ha molto da dire – ma purtroppo questa componente finisce col soffocare l’aspetto più prettamente narrativo. Il romanzo costruisce un’attesa per qualcosa di importante, ma soltanto a pagina 300 succede effettivamente qualcosa che mi ha lasciato ben sperare per il finale del libro; eppure devo ammette che il modo in cui la vicenda viene risolta mi ha lasciato piuttosto insoddisfatto, e con parecchie domande senza risposta.
Farò un paragone ardito: Spin – uno dei romanzi che più ho amato nel 2025 – affronta temi molto simili (su tutti la reazione globale a un evento potenzialmente apocalittico, e il contrasto tra scienza e fede) ma lo fa da un angolo scientificamente meno rigoroso eppure verosimile, e senza sacrificare la narrazione. Di Contact mi è rimasta addosso soprattutto la sensazione di non averlo capito, e probabilmente mi mancano alcune nozioni scientifiche per apprezzarlo appieno. Per questo non me la sento di condannare il libro, che può piacere senza dubbio di più a chi è meglio disposto verso questi temi.
⭐ Voto: 3 / 5
🎞️ Visioni
Una rubrica in cui parlo di film o serie tv che ho visto di recente.
Ok, parliamo di Sandokan (2025, Jan Maria Michelini e Nicola Abbatangelo).
Ma come – si chiederanno i più attenti tra voi – prima dici che non guardi serie tv, e poi ti vedi un prodotto della Rai con protagonista Can Yaman? Capisco l’incoerenza di fondo, ma il mio è stato un atto dovuto: perché da ragazzino ho letto tutti i libri di Sandokan (e Salgari è in assoluto l’autore che ho letto di più in vita mia); perché ho pubblicato un romanzo che da più parti è stato definito salgariano; e perché lamento sempre l’assenza di film (e libri) d’avventura di un certo tipo, e quando poi ne arriva uno non posso far finta di niente.

Voglio chiarire subito un punto fondamentale: mi sono approcciato a questa serie senza alcuna pretesa di adesione filologica al materiale letterario di partenza2. Questo per due motivi. Innanzitutto perché la lettura dei romanzi di Salgari risale ormai a quasi trent’anni fa (!), ed è inevitabilmente sbiadita nella mia memoria, almeno per quanto riguarda i dettagli. Ma anche, e soprattutto, perché negli adattamenti di opere letterarie non ho mai cercato la precisione esasperata: ho sempre pensato che conti di più cogliere lo spirito del materiale di partenza e farlo proprio, piuttosto che ricalcarlo in modo pedissequo; tanto più che in questo caso parliamo di opere scritte a cavallo tra Ottocento e Novecento, che da certi punti di vista devono necessariamente essere svecchiate in sede di adattamento. Il confronto tra i libri di Salgari e la serie tv e il dibattito conseguente, insomma, mi hanno annoiato presto: per cui mi sono limitato a valutare questo prodotto soltanto per quello che è, sgombrando il campo da quello che sarebbe dovuto o potuto essere.
E quindi cos’è, questo Sandokan? Sicuramente una serie che dà ciò che promette, cioè una massiccia dose di avventure esotiche, azione e romanticismo. Lo fa nel modo forse più difficile, e quindi sorprendente: puntando tutto sulla messa in scena, forte di un budget di 30 milioni di euro che si vede tutto. Ho sempre un certo pregiudizio nei confronti delle opere italiane, ma vedere un prodotto con una buona fotografia e scenografie degne di nota, nel contesto non facile di una vicenda storica in costume, mi ha colpito forse più del dovuto. Il fatto che la serie sia stata girata al 90% in Italia senza che questa scelta pesi sul suggestivo risultato finale, è senza dubbio un pregio della produzione e non un difetto. L’unico aspetto visivo in cui Sandokan mostra la corda è quello della computer grafica: come al solito, penso che certe scene sia meglio non girarle piuttosto che realizzarle con una CGI mediocre.
Lo sforzo produttivo, insomma, c’è e l’ho apprezzato tantissimo. Ma questo non ha fatto altro che irritarmi ancora di più quando la serie si è sgretolata là dove meno me lo sarei aspettato: sul fronte narrativo. Purtroppo c’è ben poco da salvare, e ovunque io volga lo sguarda vedo solo macerie: trama, scrittura, personaggi… tutto concorre ad affossare il mio giudizio su Sandokan.
La storia è sgangherata, e il più delle volte mi è sembrato che i personaggi venissero sbattuti da una parte all’altra del Borneo senza un vero motivo. Il ritmo delle puntate è discontinuo, con il picco più basso toccato in quelle ambientate a Singapore. Gli episodi sono pieni di eventi che hanno messo a dura prova la mia (ben allenata) sospensione dell’incredulità: strappandomi anche qualche risata, per carità, ma temo non fosse quello l’intento. E poi ci sono tante, troppe semplificazioni che mi sono saltate all’occhio, forse perché sono aspetti cui cerco di prestare attenzione quando scrivo: tipo le comunicazioni a distanza – quasi istantanee, eppure siamo nella Malesia di metà Ottocento – o le casualità che fanno sì che i personaggi si incontrino in giungle sconfinate o si accorgano di messaggi lasciati su scogliere isolate. Quando sul finale, poi, viene rivelato che il pirata dall’animo romantico e amante della scrittura si chiama Emilio, e gli viene chiesto di raccontare la storia della tigre della Malesia… non so, mi sono cadute le braccia. Sono tanti dettagli – alcuni macroscopici, in realtà – che presi nel loro complesso annullano tutto il buono che pure si intravede.
Anche il lavoro sui personaggi oscilla tra alti e bassi. Ho apprezzato la volontà di svecchiare la materia – ripeto, atto necessario – dando un ruolo più attivo ai personaggi femminili. D’altra parte il proliferare di antagonisti fa sì che nessuno di essi sia memorabile; e se James Brooke è sfaccettato nella sua ambiguità (ma mal servito dal suo interprete Ed Westwick), il sultano è francamente poco più di un manichino. Ed è un peccato che Yanez sia relegato al ruolo di comparsa – nonostante il malriuscito tentativo di cucirgli addosso un passato tormentato. Quasi tutti gli interpreti, comunque, mi sono sembrati in parte: Can Yaman fa il suo e ci mette il fisico (ma meno trucco avrebbe giovato); ad Alanah Bloor devono aver detto di fare la cosplayer di Keira Knightley in Pirati dei Caraibi, eppure in qualche modo la cosa funziona; ed è sempre un piacere rivedere John Hannah, anche se il suo personaggio non riserva troppe sorprese.
Insomma, alla fine ho avuto la sensazione che la confezione ben eseguita – cui concorrono anche le musiche dei Calibro 35, col riarrangiamento del tema storico che gasa sempre – servisse soltanto a nascondere il piattume narrativo. E questo a prescindere dall’aderenza ai libri di Salgari o all’immaginario dell’autore, che forse non è proprio in linea con la prima serata di Rai13.
C’è però un ultimo aspetto positivo che mi preme sottolineare: la serie è stata un successo di pubblico, e arriverà una seconda stagione. Perché me ne rallegro, anche se il mio giudizio finale è sotto la sufficienza? Perché un prodotto come Sandokan può fare bene all’intero movimento del genere avventuroso, che sia letterario o audiovisivo, e questa per me è un’ottima notizia. E allora ben venga il rinnovato interesse per Salgari, per le ambientazioni esotiche, per le passioni travolgenti e per gli abbordaggi all’ultimo sangue. Magari al prossimo giro il risultato sarà migliore, o quantomeno accettabile.
⭐ Voto: 2,5 / 5
🎞️ Una cosa personale
Durante le feste abbiamo portato per la prima volta al cinema nostro figlio maggiore (5 anni). Era un momento che immaginavamo da tempo, ma volevamo che lui ne fosse pienamente consapevole e quindi abbiamo aspettato fino all'occasione giusta. Alla fine è andata come ci aspettavamo: tanta emozione da parte sua prima di entrare, una porzione notevole di pop-corn, e qualche spavento nelle scene più drammatiche. Eh sì, perché Zootropolis 2 ha anche scene drammatiche - ed è un bel film, sicuramente migliore del primo, e non semplicissimo per bambini così piccoli. Comunque è stato un momento molto bello da vivere, oltre che un'ennesima testimonianza della potenza emotiva della sala cinematografica.
🕹️ Backlog
Una rubrica in cui cerco di conciliare videogiochi e vita adulta.
Lo scorso ottobre mi è venuta un’improvvisa voglia di sparatutto. Avevo appena passato due mesi abbondanti col combattimento a turni di Final Fantasy IX, e subito dopo avevo giocato a Gone Home, un walking simulator: due esperienze che avevo amato, ma a seguire volevo qualcosa di più orientato all’azione; ed ero disposto anche a sacrificare la qualità pur di averlo.
Guardando nel backlog ho trovato esattamente ciò che stavo cercando. Tempo fa avevo riscattato su GOG tre titoli della serie Call of Juarez: degli sparatutto a tema western sviluppati dalla polacca Techland, giochi dalla fama discreta e un punteggio Metacritic compreso tra il 70 e l’80. Il primo episodio, peraltro, lo ricordavo bene: era uscito nel 2006, quando ancora seguivo il mondo dei videogiochi e compravo le riviste. Più o meno nello stesso periodo mi è capitato di leggere una newsletter molto acuta di Stefania Sperandio, dal titolo Escono troppi giochi belli (e sta diventando un problema): un pezzo che invitava, tra le altre cose, ad andare oltre il solito cerchio dei giochi da 9, ricordando che anche giochi da 8 (o meno) sono dei signori giochi.
Insomma, alla fine ho installato il primo episodio, e se avete letto il riepilogo annuale lo saprete già: la serie di Call of Juarez è stata la mia personale sorpresa videoludica del 2025, al punto che ne ho giocato tre capitoli a stretto giro. Quelle che seguono sono altrettante mini recensioni4.

Da Call of Juarez (2006, Techland) mi aspettavo delle sparatorie senza troppe pretese, e invece ho avuto una sorprendente esperienza di stampo cinematografico. Questo gioco è un compendio di stereotipi western: cowboy, indiani, sceriffi corrotti, bande criminali, proprietari terrieri, messicani; e poi assalti al treno, duelli tra pistoleri, miniere abbandonate, cavalcate nei canyon. Call of Juarez pesca un po’ dai western classici e un po’ dagli spaghetti western, ma azzecca uno dei protagonisti e pure il modo in cui la trama viene portata avanti.
Texas, 1884. Dopo aver passato due anni alla ricerca del leggendario oro azteco di Juarez – senza trovarlo – il diciassettenne Billy torna a casa dalla madre Marisa e dal padre adottivo Thomas; ma trova entrambi morti, con le parole “Call of Juarez” scritte col sangue su una parete. Ingiustamente accusato degli omicidi, Billy scappa e viene inseguito da suo zio, il reverendo Ray, parroco con un misterioso passato da pistolero che vuole assicurarlo alla giustizia. Il destino di tutti si incrocerà inevitabilmente con il tesoro perduto di Juarez.
Il gioco ci mette nei panni, a livelli alternati, sia di Billy che di Ray. Il gameplay cambia di conseguenza: Billy è un fuggiasco, ha le munizioni contate ed è spesso costretto a muoversi nell’ombra; Ray invece è più tipo da sparatorie in campo aperto. Questo dualismo, sebbene non perfetto, movimenta parecchio il gioco, e c’è un certo fascino nel dare la caccia e allo stesso tempo fuggire da se stessi. E se Billy è un personaggio più convenzionale, Ray è davvero un gigante con un arco narrativo notevole.
Le sparatorie che tanto cercavo, comunque, sono state la mia parte preferita del gioco, con alcuni aspetti che mi hanno colpito particolarmente. Innanzitutto la gestione dell’inventario, che è limitato a due pistole, un fucile e un’arma speciale (l’arco per Billy e la dinamite per Ray). Ogni arma, peraltro, ha un livello di usura che costringe il giocatore ad abbandonarle in favore di quelle lasciate dai nemici, pena l’incepparsi o il surriscaldarsi proprio sul più bello. C’è poi un certo rigore storico: le pistole hanno solo sei colpi, i fucili sono potenti ma lenti da caricare, e tutto questo rende i combattimenti più strategici di quanto ci si potrebbe aspettare all’inizio. Infine, le sparatorie hanno un ottimo feeling, tra ripari improvvisati, sequenza scriptate ben congegnate, il giusto tasso di violenza e piccoli dettagli che fanno la differenza (tipo i nemici che, colpiti a morte, abbattono le ringhiere e cadono al piano di sotto).
Se ci aggiungiamo una grande varietà di gameplay – combattimenti, inseguimenti a cavallo, esplorazione, una sequenza di caccia alla lepre con l’arco (!), una in cui si deve scalare una montagna per recuperare la penna di un’aquila (!!) – e una grafica che all’epoca era ottima, ne viene fuori un gran bel gioco che mi ha dato molto più di quanto pensassi. Si tratta anche di un titolo difficile, almeno a giudicare dai numerosi game over che hanno contribuito a portare il contatore delle ore a 11. Molti consigliano di saltare questo episodio, accusandolo di essere troppo eurojank per via di tutte le sue imperfezioni; io dico invece che vale la pena recuperarlo ancora oggi, anche se da molti punti di vista è un gioco d’altri tempi5.
⭐ Voto: 3,5 / 5
Come si suol dire, Call of Juarez ha camminato così che Call of Juarez: Bound in Blood (2009, Techland) potesse correre. Uscito a soli tre anni di distanza, questo prequel rappresenta un’evoluzione da tutti i punti di vista. In primis da quello della scrittura, che fa compiere alla trama quel balzo che mancava al prototipo.
Bound in Blood è ambientato vent’anni prima di Call of Juarez, e segue le vicende di un giovane Ray e di suo fratello Thomas (il patrigno di Billy, che nel primo capitolo vediamo morto all’inizio del gioco). Dopo un prologo pazzesco ambientato nelle trincee della Guerra di Secessione, i due disertano e partono per il West insieme al terzo fratello, il prete William. Il viaggio cambierà Ray e Thomas nel profondo, trasformandoli in fuorilegge assetati di ricchezze; e l’incontro con il messicano Mendoza – e soprattutto con Marisa, la sua donna – li farà sprofondare in una spirale di violenza senza fine.
La trama è molto più sfaccettata e matura, piena di grandi passioni e sentimenti contrastanti, ed è portata avanti sia dalla voce narrante di William sia da cinematiche di raccordo ben realizzate (nei limiti tecnici dell’epoca). I personaggi sono parecchi, e le loro interazioni ben delineate; tornano anche alcuni volti noti, anche se di molti di loro, chiaramente, conosciamo già il destino.
Il gameplay è stato ulteriormente migliorato rispetto al primo capitolo. Anche qui si usano due personaggi, ma possiamo scegliere quale utilizzare in ogni livello e le differenze tra i due sono meno marcate. Sono state eliminate le sequenze stealth e il gioco è più sbilanciato verso il combattimento, cui è stato aggiunto un sistema di copertura che, una volta padroneggiato, è davvero ottimo e contribuisce all’aspetto strategico dei combattimenti. Resta poi l’impressionante varietà di situazioni: trincee, duelli sotto la pioggia battente, sequenze di sparatutto “sui binari” (la fuga in diligenza dalla città è fuori di testa), foreste, deserti, fiumi, città fantasma, accampamenti indiani e persino un paio di piccole sequenze open world con missioni opzionali, utili a racimolare denaro da spendere in armi più potenti.
Bound in Blood, d’altra parte, è più facile del primo, con alcune concessioni – la salute che si ricarica in automatico, le armi che non si deteriorano, il puntatore che ti dice sempre dove andare – che mi hanno fatto storcere un po’ il naso; è anche il meno violento dei tre capitoli che ho giocato, cosa che a mio parere toglie un po’ di carattere. L’ho portato a termine in 8 ore e mezza, con missioni della giusta durata che riuscivo a completare in una sessione di gioco.
Per me, comunque, rimane il migliore della serie, forte anche di una grafica che si difende benissimo ancora oggi: in più di un’occasione mi sono fermato nel bel mezzo di una foresta o lungo la sponda di un fiume, e mi sono sorpreso a osservare il paesaggio.
⭐ Voto: 4 / 5
Andrò controcorrente rispetto all’Internet, ma per me Call of Juarez: Gunslinger (2013, Techland) rappresenta il capitolo peggiore tra i tre: non un brutto gioco, per carità, ma sicuramente un passo indietro su quasi tutti i fronti.
A partire dalla trama: Gunslinger, infatti, è tutto narrato in flashback da un pistolero che racconta di come abbia trovato e sconfitto in duello alcuni leggendari personaggi del West (Billy the Kid, Butch Cassidy, e così via); non c’è alcun riferimento alla storia degli altri episodi. Questa struttura a episodi non mi ha convinto per niente e mi è sembrata fine a se stessa. A peggiorare le cose c’è la trovata del narratore inaffidabile: il pistolero, talvolta, racconta i fatti in modo sbagliato e poi si corregge, costringendo il giocatore a ripercorre parte dei livelli. A molti la cosa è piaciuta, a me ha solo provocato irritazione.
Il gameplay è stato sbilanciato del tutto verso l’arcade: a ogni colpo o nemico abbattuto corrisponde un punteggio, che si trasforma in punti esperienza spendibili per acquisire capacità speciali. Manca del tutto l’aspetto strategico che avevo apprezzato nei primi capitoli, e le sparatorie sono molto più frenetiche, con tanto di alcuni boss di fine livello. Nonostante tutto l’ho trovato ancora più facile di Bound in Blood, portandolo a termine in poco più di 5 ore.
Se i primi due Call of Juarez mi ricordavano certi film western, Gunslinger mi è sembrato un fumettone. Forse anche per lo stile grafico adottato, che fa uso di cel shading e presenta alcune esagerazioni palesemente disegnate (come gli spruzzi di sangue dei nemici colpiti). Un vero peccato, perché invece il comparto tecnico è ottimo, e ho apprezzato tantissimo gli effetti di luce e quelli dell’acqua.
Come dicevo, Gunslinger non è un brutto gioco. Il level design è probabilmente il migliore della serie, con alcune menzioni d’onore: il livello nella palude con il battello arenato, quello sul treno in corsa, quello nella città fantasma che sprofonda. Tuttavia non basta per elevarsi oltre la sufficienza, soprattutto ripensando alle vette raggiunte dai suoi illustri predecessori.
⭐ Voto: 3 / 5
🔗 Link
Una raccolta dei migliori contenuti in cui mi sono imbattuto in giro per il web questo mese.
FinalRound diventa cartaceo. Ho già parlato in passato di FinalRound, il portale web di approfondimento videoludico di RoundTwo. Questo mese è stato annunciato che il sito diventerà (anche) una rivista cartacea, con una cadenza bimestrale a partire da marzo 2026. Un progetto interessante e fuori dal tempo, che ho deciso di supportare con un abbonamento per il primo anno. Ne riparleremo a tempo debito.
Il supplizio natalizio delle password degli anziani. A Natale siamo tutti più buoni, e quindi vi consiglio questo pezzo molto divertente di Francesca Mastruzzo per la sezione Storie/Idee de Il Post. (Sempre ricordando di essere comprensivi e pazienti verso chi ha difficoltà con la tecnologia: sono le stesse persone che vi hanno insegnato a usare un cucchiaio).
La madre del mio amico S., invece, è andata nel panico quando lui le ha aggiornato il sistema operativo del pc. Al riavvio, sul desktop è apparso il widget del meteo e le icone si sono ben allineate a sinistra. Lei ha lanciato un urlo belluino: «Mi hai cambiato tutto! Non è più il mio computer!»
È tutto, ci sentiamo l’anno prossimo! (Risate) Ciao!
- Categoria che, come avrete capito se mi seguite da un po’, comprende svariate decine di pellicole. ↩︎
- O a quello audiovisivo, visto che in questo caso c’è anche l’ingombrante precedente della miniserie del 1976 diretta da Sergio Sollima e interpretata da Kabir Bedi, che molti hanno chiamato in causa per un confronto (io però non l’ho vista). ↩︎
- Nonostante i numerosi duelli all’arma bianca, la serie ha un tasso di violenza minimo. In questo lo spirito di Salgari è veramente tradito, visto che i suoi romanzi, al contrario, sono pieni di dettagli truculenti. Ne voglio citare uno che mi ricorderò finché campo. Nel romanzo Alla conquista di un impero i nostri eroi si trovano in India, dove a un certo punto vengono presi in trappola nel palazzo di un rajah. Segue una battaglia in cui compare anche un elefante, che viene ferito a morte e crolla a terra chiudendo con la sua mole l’unica uscita. I feroci sostenitori del rajah, nel tentativo di raggiungere Yanez e Sandokan all’interno del palazzo, decidono così di aprirsi un varco attraverso la carcassa dell’elefante. Ecco come Salgari descrivere la scena:
Un terzo sparo rimbombò nel cortile e si vide uno spettacolo orribile. L’elefante era stato colpito da una granata e questa, scoppiando nel suo corpo, aveva orrendamente squarciata la massa, scagliando, contro gli stipiti della porta, enormi lembi di pelle e di carne e spruzzando di sangue le vicine pareti, le porte di bronzo, i divani e perfino le sedie.
Letta a dieci anni, vi assicuro, questa roba non aveva prezzo. ↩︎ - La serie si compone in realtà di quattro videogiochi, ma il terzo in ordine di uscita (Call of Juarez: The Cartel, 2011) è una sorta di spin-off ambientato ai giorni d’oggi. L’ho saltato non tanto perché è di gran lunga quello che ha ricevuto l’accoglienza peggiore, quanto per il fatto che oggi è impossibile da reperire per via legali: nel 2018 è stato infatti delistato dai negozi online in seguito al passaggio dei diritti di pubblicazione dall’editore (Ubisoft) allo sviluppatore (Techland). ↩︎
- Ci ho giocato su Steam Deck collegata a un monitor esterno, con ausilio di mouse e tastiera: fa ancora parte di quella generazione di sparatutto che sono stati pensati soprattutto per PC. ↩︎
Quest’anno Urania ci ha regalato tante ottime uscite: al libro da te citato ne aggiungo altri 2 dal titolo curiosamente simile, “Irontown Blues” e “Red Planet Blues”. In entrambi i casi si tratta di un’audace ma riuscitissima fusione tra 2 generi molto distanti tra loro, il noir e la fantascienza.
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Ciao wwayne! I due che citi me li sono persi, ci darò un’occhiata. Quest’anno ho comprato parecchi Urania, anche se tutti nella collana Jumbo. Il problema è che ho letto solo “Contact”, gli altri sono ancora in coda e ne parlerò un po’ alla volta nei prossimi mesi 😀
In compenso uno dei libri più belli dell’anno per me è stato “Spin”, che è stato pubblicato sempre su Urania ma nel 2024 (infatti uno degli Urania che ho preso quest’anno è il suo sequel “Axis”). Ne ho scritto qui: https://luigicalisi.com/2025/02/24/febbraio-2025-prima-parte/
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