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Bentornati a Il riepilogo mensile!
Un sabato mattina di inizio settembre, io e mio figlio di cinque anni eravamo in spiaggia quando ci siamo imbattuti in uno scoglio con una profonda fenditura. Mio figlio lo ha subito ribattezzato “scoglio spezzato”, e poco dopo ha cominciato a ricamarci sopra una storia – anzi, una leggenda – che coinvolgeva un pirata, un naufragio e un tesoro nascosto proprio lì dentro (deve essere genetica).
Osservando la facilità con cui la storia prendeva forma nella sua mente – e il modo in cui altrettanto facilmente veniva ampliata nei giorni successivi – ho ripensato a un tema sui cui rifletto spesso: e cioè che nasciamo con la fantasia a briglia sciolta, e poi un po’ alla volta la costringiamo in un recinto. Di tanto in tanto ripenso alle storie che inventavo da bambino, quando ero appena un po’ più grande dell’età che ha mio figlio oggi: interi mondi con i propri personaggi e le proprie regole – oggi li chiameremmo universi condivisi – in cui tornavo a cadenza regolare inventando sottotrame sempre nuove1.
Quella libertà creativa – così totale e priva di limiti – si è persa con la fine dell’infanzia. Intendiamoci: la gran parte delle storie che inventavo all’epoca era improponibile; ma erano storie rivolte a me soltanto, e potevo indirizzare la fantasia in ogni direzione. Oggi invece, quando scrivo, percepisco i paletti che delimitano il percorso. Ciò che produco è destinato a essere letto da altri (si spera, almeno), e questo porta a domande, dubbi, rilavorazioni, tagli, persino responsabilità nei confronti di chi un giorno leggerà quelle parole.
Penso a tutto questo soprattutto adesso che ho ripreso i lavori sul nuovo romanzo2. Durante l’estate non ho scritto neanche una riga, ma è stata una pausa necessaria: mi ha aiutato a mettere un po’ di distanza col manoscritto, per capire cosa funzionava e cosa no, e adesso sto effettuando cambi piuttosto drastici. Questa nuova versione del romanzo mi piace, e soprattutto mi sta piacendo lavorarci, che è poi quello che conta di più.
Ma allo stesso tempo non posso non pensare a quanto sia difficile scrivere. A volte rivorrei indietro la mia immaginazione da bambino, quella capacità ormai perduta di inventare storie in scioltezza, senza preoccuparmi di niente. Quando anche uno scoglio spezzato poteva contenere un mondo intero.
Questo mese vi parlo di:
- 📖 Letture: La città di ottone, un libro che mi aspettava da anni.
- 🎞️ Visioni: un film in sala e un recupero di inizio millennio.
- 🕹️ Backlog: un anno con la Steam Deck.
- 🔗 Link: un ricordo di Robert Redford e altre cose belle trovate su Internet.
Buona lettura!
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📖 Letture
Una rubrica in cui parlo dei libri che ho avuto sul comodino negli ultimi tempi.
Provo una certa soddisfazione nello smontare, volume dopo volume, una pila di libri da leggere che aveva raggiunto ormai altezze vergognose. Sto mantenendo un buon ritmo in questo 2025 – ho addirittura chiuso la mia personale Reading Challenge di Goodreads ad agosto3 – e sto finalmente leggendo volumi che erano entrati in casa mia anni fa.
È il caso de La città di ottone di S.A. Chakraborty (2017, pubblicato in Italia da Mondadori nel 2020, traduzione di Lia Desotgiu). Mi ero interessato a questo libro due o tre anni fa, essenzialmente per motivi di studio inerenti la sua ambientazione, ma poi non avevo mai trovato la voglia di leggerlo – anche perché è il primo volume di una trilogia, il che presuppone un investimento di tempo multiplo. Il suo momento, infine, è arrivato questa estate.

Medio Oriente, XVIII secolo. Nahri è una piccola truffatrice che vive di espedienti nelle strade del Cairo. Quando durante un rituale evoca per errore Dara, un jinn guerriero, forze misteriose e mortali si mettono sulle sua tracce. Insieme a Dara, Nahri intraprende un viaggio alla volta di Daevabad, la leggendaria città di ottone, dove le sue vicende si intrecceranno con quelle del principe Ali e con gli interessi di fazioni millenarie.
Dicevo che ho approcciato questo libro per la sua ambientazione, e devo ammettere che ambientazione ho avuto, a palate. Il worldbuilding messo su dall’autrice è denso e molto complesso, e a tratti mi ha lasciato davvero a bocca aperta. La città di ottone è a tutti gli effetti un historical fantasy: è ambientato infatti in una versione alternativa del Medio Oriente, dove la magia regna sovrana e razze diverse – esseri del fuoco, dell’acqua, dell’aria e della terra – lottano per la supremazia, mentre gli umani sono spettatori. C’è tanta, tantissima carne al fuoco: anche troppa, e nella prima parte ho avuto qualche difficoltà a stare dietro a tutti i dettagli, nonostante i lunghi e frequenti spiegoni. Il volume ha l’ingrato compito di aprire una trilogia, fissando le coordinate di un intero mondo parallelo: pur avendo parecchie frecce nel proprio arco, il compito è portato a casa per metà.
A un certo punto però il libro ingrana, e la seconda parte mi ha appassionato parecchio. La vicenda alterna i punti di vista di Nahri e Ali, i cui destini finiscono col collidere all’interno della città che dà il nome al romanzo. Succedono molte cose e diversi personaggi entrano in scena, dando profondità alle linee narrative: la più riuscita mi è sembrata proprio quella di Ali, principe che foraggia di nascosto i ribelli e che affronta i dilemmi morali che ne derivano. Ho avuto più difficoltà ad appassionarmi alla vicenda di Nahri e Dara – difficoltà che, a quanto leggo in rete, è diffusa: non voglio fare spoiler, ma ho trovato entrambi respingenti; mentre che ci sia attrazione fisica tra i due è palese dal momento stesso in cui compaiono sulla pagina.
A tal proposito: il marketing ha fatto passare questo libro come romantasy – l’edizione paperback che ho letto ha persino dei micidiali hashtag sulla quarta di copertina, concessione al BookTok che lascia il tempo che trova. A me la componente romance è sembrata piuttosto contenuta, negli standard di qualsiasi opera di narrativa; in questo caso non credo sia necessaria un’etichetta aggiuntiva, né tantomeno attaccarsi al trend del momento.
Terminata la lettura, sono stato a lungo indeciso tanto sul giudizio quanto sull’eventualità di proseguire con il resto della trilogia. Avrei voluto che questo romanzo mi fosse piaciuto di più, poco ma sicuro: invece mi resta soprattutto il rimpianto di un worldbuilding notevole, che forse ha schiacciato tutto il resto. Si tratta anche di un romanzo che parla di più a un pubblico young adult, e io comincio ad essere un po’ troppo in là per essere considerato young. Alla fine, un po’ a malincuore, ho deciso di parecheggiare La città di ottone nel cimitero delle saghe abbandonate4.
⭐ Voto: 3 / 5
🎞️ Visioni
Una rubrica in cui parlo di film o serie tv che ho visto di recente.
Il film più bello che ho visto nel 2024 è stato Past Lives di Celine Song (ne avevo scritto esattamente un anno fa). Tempo fa avevo letto che la regista – sudcoreana di nascita, oggi cittadina canadese – era al lavoro su una produzione americana dopo il successo della sua opera d’esordio; ma questa informazione era scivolata in un angolo remoto della mia testa.
Poi un pomeriggio di settembre si è aperto uno spiraglio per andare al cinema con mia moglie, e scorrendo i film in programmazione l’occhio mi è caduto sul nome di Celine Song. Così siamo finiti in sala a vedere Material Love (2025).

Non sapevo nulla di questo film – anche se pare sia stato oggetto di un battage pubblicitario notevole sui social – ma di una cosa ero certo: non mi aspettavo un altro Past Lives. Il passaggio dalla dimensione intima di quel film a una produzione con star hollywoodiane la diceva lunga, e mi ha aiutato ad arrivare con le aspettative tarate nel modo giusto. Detto questo, penso che i giudizi negativi che la pellicola ha raccolto un po’ ovunque siano immeritati.
Spacciato per una commedia romantica, il film ha ben poco della commedia, e pure la parte romantica è declinata in un modo tutto suo. A me è piaciuto il cinismo con cui vengono tratteggiati i rapporti amorosi (il titolo originale, Materialists, è persino più esplicito da questo punto di vista), così come i tratti sopra le righe con cui vengono descritti alcuni casi umani. Quello che non funziona è che il film soffre di una certa prevedibilità. Penso sia possibile intuire dove la storia vada a parare già dai primi minuti, e forse qualcuno potrebbe arrivarci persino dal poster. In tal senso il confronto con Past Lives – coraggiosissimo a prendere le strade meno battute – è impietoso.
Resta un film scritto in modo brillante (qualcuno ha scomodato Woody Allen e il paragone, per quanto azzardato, non è poi così improbabile) e girato in maniera impeccabile. La forma mi aveva colpito già nella sua opera prima, e qui Celine Song si conferma una regista con un bagaglio tecnico importante – cosa non banale nel panorama contemporaneo. (Comunque recuperate Past Lives, davvero).
⭐ Voto: 3,5 / 5
🎞️ Recuperi
Ero rimasto uno dei pochi a non aver visto Little Miss Sunshine (2006, Valerie Faris e Jonathan Dayton), cult del cinema indie di inizio millennio. A volte le cose sono semplici: mi aspettavo un film furbissimo costruito ad arte per piacere, e ho avuto un film furbissimo costruito ad arte che mi è piaciuto. Molto sembra già visto - la famiglia disfunzionale, il nonno erotomane e parolacciaro, l'adolescente muto che odia tutti - ma forse anche perché un certo tipo di cinema, in seguito, ha pescato da qui a piene mani. La coppia alla regia tiene comunque insieme il registro comico e quello drammatico in modo mirabile, e le musiche dei DeVotchKa fanno il resto. L'ho visto su Disney+.
⭐ Voto: 4 / 5
🕹️ Backlog
Una rubrica in cui cerco di conciliare videogiochi e vita adulta.
Sì, sto ancora giocando a Final Fantasy IX, come scrivevo il mese scorso. Devo ormai affrontare l’ultimo segmento, ma sono riluttante perché sto completando un po’ di quest secondarie, cercando di raggiungere il più alto livello possibile. Incredibile quanti segreti nasconda questo gioco, e come sia un piacere perdercisi dentro. Ancora un po’ e poi lo lascio andare, giuro.
Questo mese quindi mi limiterò a fare una cosa che ho visto decine di volte tra newsletter, canali YouTube e subreddit: una retrospettiva sul mio primo anno con la Steam Deck. Argomento che probabilmente interesserà solo me, ma tant’è.

Riepilogo delle puntate precedenti: a settembre 2024 ho comprato una Steam Deck LCD da 512 GB, approfittando di un forte sconto su questo modello specifico, che era andato fuori produzione. Nella newsletter di quel mese avevo elencato nel dettaglio i motivi che mi avevano spinto all’acquisto, quindi non ci tornerò sopra; in questa sede passerò per così dire dalla teoria alla pratica, parlandovi di come è andata.
Partiamo dal dato più eclatante: in questi primi dodici mesi con la Steam Deck ho giocato a sedici giochi (più due DLC), portandoli tutti a termine. Vuol dire che in un solo anno ho giocato a più titoli di quanti ne abbia giocati nei precedenti… diciotto, se non vado errato. Ho preso una Steam Deck essenzialmente perché volevo tornare a giocare: missione compiuta.
Peraltro, erano tutti videogiochi che languivano da tempo immemore nel mio backlog – con la sola eccezione di Inside, che ho comprato e poi giocato a stretto giro. Backlog in gran parte ospitato su Steam; finora un solo titolo (FlatOut) proveniva dal catalogo GoG, dove pure ho una valanga di giochi che mi aspettano e che comincerò a depennare nei prossimi mesi. Per chi se lo stesse chiedendo: la mia unica esperienza col launcher esterno – ho usato Heroic – è stata positiva, ho dovuto giusto configurare i comandi.
Trattandosi di un dispositivo handheld, la domanda sorge spontanea: dove ho usato la Steam Deck5? Solo ed esclusivamente a casa, tanto per cominciare: mai avuto intenzione di portarmela in giro su treni o aerei. Va detto che comunque l’ho portata a visitare varie case altrui, nel corso dell’anno. I primi tempi l’ho usata soprattutto nel suo luogo di elezione – il divano del salotto – ma mi è capitato di giocarci anche seduto al tavolo (scomodo) o a letto prima di dormire (incredibilmente comodo; ci ho fatto buona parte di Half-Life 2 durante il periodo natalizio). Non avevo mai avuto una console portatile prima, quindi questa esperienza di gioco è del tutto nuova per me: direi che mi piace, e soprattutto è funzionale.
Solo negli ultimi mesi ho scoperto le gioie di uno schermo esterno. Senza bisogno di un dock, mi è bastato un cavo USB-C per collegarmi a un normalissimo monitor: Portal 2 e Assassin’s Creed li ho giocati interamente così, usando la Steam Deck come controller. Ovvio, si perde un po’ di qualità; ma su titoli un po’ più datati è quasi impercettibile, e c’è il vantaggio che la batteria è sempre carica. Lo stesso monitor è dotato anche di prese USB proprie, il che mi consente di trasformare la Steam Deck in un vero e proprio PC, usando mouse e tastiera: non l’ho ancora messa alla prova con giochi di strategia o punta e clicca, ma è una possibilità che mi riservo per il futuro.
Ma quanto ci ho giocato? Il giusto: ci sono stati periodi in cui non l’ho accesa per diversi giorni – e addirittura per un mese intero, a cavallo tra giugno e luglio – ma per il resto sono stato abbastanza costante. Raramente ho giocato più di un’ora: una mia sessione tipica è tra i 30 e 50 minuti, la sera prima di dormire. La fotografia del videogiocatore padre di famiglia trentaseienne, in pratica.
In ogni caso, con la Steam Deck mi sto proprio divertendo. Si tratta del dispositivo perfetto per questa fase della mia vita: semplice da usare, sempre pronto all’uso, versatile, con un supporto costante e una base di titoli enorme. Mi ha consentito di recuperare una passione che pensavo di aver perso, facendolo al mio ritmo e senza un briciolo di FOMO, e soprattutto di varare questa rubrica che tanta gioia porta ogni mese ai suoi quattro lettori appassionati.
Chiudo questa sviolinata da fanboy con un po’ di concretezza, segnalando che fino al 6 ottobre il modello LCD da 256 GB è in offerta al 20% di sconto sul sito ufficiale di Steam. Non ci guadagno niente, eh, è solo un consiglio spassionato: ma magari cercate solo una scusa per fare il primo passo in questo mondo.
🕹️ Qualcosa da leggere
Diversi mesi fa vi avevo segnalato l'uscita del volume Storie di videogame di Andrea Porta, edito da RoundTwo e Itomi. Il libro raccoglie una versione aggiornata di sei puntate del podcast omonimo, incentrate sulla storia produttiva di altrettanti celebri franchise, più un capitolo inedito. Ho pre-ordinato la prima edizione del volume a gennaio, mi è arrivato a giugno e durante l'estate l'ho letto, confermando le mie aspettative: si tratta di un'operazione ben confezionata (al netto di qualche refuso fastidioso) e di indubbio valore per chi si interessa di divulgazione videoludica.
Avevo ascoltato un paio di puntate del podcast in passato, trovandole ben fatte, ma il formato audio proprio non riesce ad appassionarmi. Alcune puntate erano già migrate alla forma scritta sotto forma di articoli ospitati da Final Round, che avevo letto con molto piacere. Col libro ho fatto anche l'ultimo passo, leggendo con vivo interesse tutti i capitoli. La cosa mi sembra rilevante perché ho giocato di prima mano solo due dei titoli analizzati (Assassin's Creed e Half-Life), mentre tutti gli altri li conosco solo di fama (si tratta di Mass Effect, Bioshock, The Legend of Zelda e Metal Gear Solid). Anzi, forse i capitoli più interessanti sono proprio quelli dedicati alle opere che non ho provato, che mi hanno lasciato addosso una genuina curiosità. Sono contento che questo sia il primo volume di una serie, e non vedo l'ora di scoprire quali saranno i titoli inclusi nelle prossime uscite.
Storie di videogame si può acquistare sul sito di Itomi. Costa 29.99€, che non è poco, ma è un prodotto indipendente che viene stampato quasi on-demand, e comprandolo sostenete un progetto serio di divulgazione videoludica.
🔗 Link
Una raccolta dei migliori contenuti in cui mi sono imbattuto in giro per il web questo mese.
- Sei il quartiere che abiti: Nicola H. Cosentino racconta su Lucy cosa vuol dire cambiare quartiere in una grande città. Una lettura che ho trovato molto onesta, su un tema – la vita nelle metropoli – che è spesso al centro dei miei pensieri.
- Robert Redford, la star politica di un mondo che non c’è più: tra tutti gli articoli pubblicati nei giorni successivi alla morte di Robert Redford, questo firmato da Francesco Gerardi per Rivista Studio è quello che mi è piaciuto di più. Racconta l’uomo oltre i film, il suo impegno per promuovere un tipo diverso di cinema, e il suo essere orgogliosamente controcorrente.
- E l’indie diventò pop: l’avvento di Calcutta, dieci anni dopo: un pezzo di Mattia Marzi su Rockol, che racconta il decennale di Cosa mi manchi a fare di Calcutta e il modo in cui ha cambiato parte della musica italiana.
- Io certe volte dovrei fare come Dario Hübner: ancora Calcutta, in un certo senso. Emanuele Atturo, caporedattore di Ultimo Uomo, ha pubblicato un saggio intitolato Il mito dei bomber di provincia (Einaudi). Questo estratto dedicato a Hübner è oro puro.
- Questa cosa dei videogiochi: Marco Montanaro firma su Minima et Moralia una riflessione molto acuta sul videogiocare, delineando peraltro incredibili parallelismi col mio vissuto da giocatore.
Be’, l’autunno è arrivato, i malanni pure. Ci sentiamo tra un mese, ciao!
- A parte il soggetto per una trilogia di film ispirati a Monkey Island, il resto era tutto farina del mio sacco. Ricordo un filone narrativo incentrato su uno zio e un nipote entrambi supereroi (ero imbevuto di cultura Disney, dove si sa che i rapporti genitori-figli sono quasi assenti). C’erano poi le scogliere della spiaggia che frequentavo, che con Matteo avevamo rinominato Scheletrandia e Mostrilandia (questa cosa degli scogli è da studiare, davvero). Ma mi ero anche inventato un intero campionato di Formula 1 con tanto di scuderie, piloti e dinamiche tra loro. “Poche ragazze da quelle parti, eh?” (cit.) ↩︎
- Quante volte ho già scritto questa frase in passato? Comincio a sospettare che siano un po’ troppe ↩︎
- 12 libri, niente di sconvolgente: uno al mese dovrebbe essere il minimo sindacale. Eppure da qualche anno ci arrivavo pelo pelo a dicembre. ↩︎
- Sulla decisione ha influito anche il fatto che il terzo volume è al momento introvabile in versione cartacea. ↩︎
- Fantastico, adesso mi faccio anche le domande da solo. ↩︎