Bentornati a Il riepilogo mensile, che questo mese compie un anno!
Dodici mesi fa, la prima puntata di questa newsletter venne inviata a quattro (4) indirizzi email; oggi, questo numero arriverà nelle caselle di oltre sessanta persone. Veniamo da anni in cui il successo sui social network si è misurato nell’ordine delle centinaia – se non migliaia – di follower, quindi a prima vista il mio pubblico può sembrare striminzito. Ma mi è sempre più evidente che un iscritto su Substack ne vale almeno dieci su qualsiasi altro social.
Ho scelto di aprire una newsletter perché ero sempre più insofferente nei confronti dei social network, e volevo uno spazio dove condividere quello che non mi andava più di postare altrove. A un anno di distanza, posso dire che ho praticamente smesso di creare contenuti per i social (se non quelli per promuovere la newsletter stessa) e che ne fruisco in generale sempre meno1. Leggo invece tante newsletter su Substack, dove per il momento si respira un’aria pulita anche nella sua componente social; sono conscio che la merdificazione di uno spazio digitale è sempre dietro l’angolo, ma per ora mi godo l’orticello (per un approfondimento sul concetto di “merdificazione”, vi consiglio – guarda un po’ – questa puntata dell’ottima newsletter Insalata Mista di Franco Aquini).
Nelle mie intenzioni questa newsletter si doveva rivolgere principalmente ad amici o persone che avevano conosciuto il mio lavoro come scrittore; volevo, appunto, che sostituisse i social network. Non ho mai avuto piani precisi per trovare un pubblico e farlo crescere, ma ho semplicemente cominciato a scrivere. Oggi i lettori di questa newsletter sono in larghissima parte persone che non conosco: molti sono arrivati di recente attraverso il meccanismo di raccomandazione di Substack (grazie di cuore a chi ha scelto di suggerire Il riepilogo mensile!) e non era così scontato che rimanessero. Leggere una newsletter, dopotutto, prende del tempo e richiede una concentrazione non compatibile con lo scroll distratto di un social network. Per questo sono estremamente grato per ogni singolo iscritto, e spero di ripagare la fiducia con dei contenuti che valga la pena leggere.
A proposito di contenuti: negli ultimi tempi ho considerato sempre più questa newsletter alla stregua di un magazine. Forse è qualcosa che inconsciamente ho pensato sin dall’inizio: lo suggerisce la cadenza mensile, ma anche la presenza di categorie tematiche (che ho sempre chiamato “rubriche”). In quest’ottica, sto sperimentando nuovi elementi: da un paio di mesi ho introdotto l’indice dei contenuti, mentre in questo numero trovate le note a pié di pagina (mio antico feticismo) e dei box con approfondimenti su titoli che non meritavano la vetrina, ma allo stesso tempo non volevo tagliare. Questo taglio editoriale – che comunque riscontro in molte altre newsletter – a volte fa sorridere anche me, ma in fin dei conti lo trovo piuttosto calzante: cos’è in fondo Il riepilogo mensile se non il magazine di cultura pop che ho sempre voluto leggere? (Non è il preludio all’inserimento di un paywall, tranquilli).
E allora, di cosa si parla questo mese? Di questo:
- ⌨️ Scrittura: il mio romanzo d’esordio è fuori catalogo. Olè!
- 📖 Letture: Marea Tossica e la fantascienza cinese.
- 🎞️ Visioni: Il gladiatore II è purtroppo quello che mi aspettavo.
- 🎵 Ascolti: invito alla scoperta di Sam Fender.
- 🕹️ Backlog: rivisitando quella pietra miliare di Half-Life.
- 🔗 Link: la chiusura di BadTaste e altro ancora.
Buona lettura!
⌨️ Scrittura
Aggiornamenti sulle cose che ho scritto, sto scrivendo o dovrei scrivere.
Il mondo finisce all’orizzonte – il mio romanzo d’esordio, pubblicato a gennaio 2022 da Libromania – è ufficialmente fuori catalogo. Inutile girarci attorno, è così.

Me ne sono accorto qualche giorno fa, quando ho cercato il libro su Amazon e ho notato che non era acquistabile né in cartaceo né in ebook. La notizia non è giunta inaspettata: il marchio che lo ha pubblicato non esiste più dalla fine del 2022, e io un anno fa avevo firmato un prolungamento eccezionale per dodici mesi. Finisce così la mia prima avventura nel mondo editoriale, senza troppe fanfare (ma raggiungendo in extremis le 90 valutazioni su Amazon, che buttale via).
Che succede adesso a Il mondo finisce all’orizzonte? Be’, direi niente. Con la fine naturale del contratto, i diritti dell’opera sono tornati a me. Sono libero di proporlo a un’altra casa editrice – ma è tempo perso, nessuno pubblica un libro già edito e che ha fatto il suo corso (leggi: circa 1.000 copie vendute nei primi due anni). Potrei tentare la via dell’autopubblicazione – ma è un sentiero su cui non ci si improvvisa, e che richiede tempo, fatica e denaro. Per ora, quindi, il libro resterà fuori catalogo.
Tutto questo citare il Il mondo finisce all’orizzonte vi ha incuriosito, ma non sapete di cosa parla il libro? Sul mio sito trovate informazioni sulla trama e il racconto del lungo percorso che mi ha portato alla pubblicazione.
Vi sembra interessante e adesso avete voglia di leggerlo? Ci sono alcune copie in giro nel circuito dell’usato (ad esempio su Ebay). Ed è presente in diversi sistemi bibliotecari su e giù per l’Italia (un plauso a quello della Valle d’Aosta, dove ne sono disponibili addirittura due copie!).
Lo avete già letto e avete una copia a casa? Questo è il momento di scommettere insieme a me sulla mia carriera di scrittore! Conservate la vostra copia, meglio ancora se ve l’ho firmata. Chi può mai sapere quanto varrà questa prima edizione tra qualche anno? (Probabilmente poco o niente, ma è una scommessa da cui avete solo da guadagnare).
Per quanto mi dispiaccia che il libro non sia più reperibile, non ne faccio un dramma. Al momento sono impegnato nella stesura di un nuovo romanzo, che sta assorbendo tutte le mie forze. Spero comunque che in futuro – in un modo o nell’altro – la storia di Colin, del capitano Blackmore e degli abitanti di Norman Island possa arrivare di nuovo a tanti lettori.
📖 Letture
Una rubrica in cui parlo dei libri che ho avuto sul comodino negli ultimi tempi.
Nonostante mi sia imposto di non comprare altri libri, la pila di volumi che ancora devo smaltire rimane consistente. È quindi con un anno e mezzo di ritardo rispetto al suo acquisto che questo mese ho letto Marea tossica di Chen Qiufan.

Pubblicato originariamente in Cina nel 2013, Marea tossica si inserisce nel filone della fantascienza cinese che negli ultimi anni ha valicato i confini della madrepatria, arrivando in Occidente. Ho seguito questo libro sin dalla sua prima pubblicazione in Italia, avvenuta nel 2020 grazie a Mondadori, e alla fine l’ho acquistato quando è arrivato su Urania2. Il romanzo mi aveva intrigato con la sua promessa di un intreccio fantapolitico su un’isola adibita a discarica: uno scenario che mi ricordava vagamente quello di un mio racconto del 2020, Il Patch. Ma c’era anche la curiosità di leggere, per la prima volta in vita mia, un autore cinese, con tutto ciò che questo comportava3.
Mare tossica è ambientato in un futuro molto vicino al nostro presente, in cui un’isola al largo della Cina – Silicon Isle, invenzione dell’autore – viene destinata dal governo a discarica e centro di smaltimento dei rifiuti elettronici. L’isola viene ben presto colonizzata dalla “gente dei rifiuti”, migranti arrivati in cerca di fortuna e costretti invece in semi-schiavitù dai tre clan criminali che controllano il posto – i Luo, i Lin e i Chen. Se ci aggiungiamo anche un ambiente inquinato, ecoterroristi in agguato e un’azienda americana interessata a fare affari sull’isola, ci sono tutte le premesse per la rottura del fragile equilibrio tra le forze in campo.
Il worldbuilding messo in piedi dall’autore è solido e ricco di risvolti affascinanti. Tutta la prima parte del romanzo è dedicata a definire lo scenario e a presentare i vari protagonisti della vicenda, con un’enfasi sulle differenze tra la povera gente sfruttata e chi invece ha lucrato sulla loro pelle. Si respira l’atmosfera di certi romanzi cyberpunk – e infatti non mi ha stupito scoprire che Chen Qiufan sia stato definito “il William Gibson cinese” – con innesti artificiali su corpi umani, retine intelligenti e tecnologie che pervadono il quotidiano.
Nonostante le ottime premesse, devo confessare che ho arrancato un po’ nella lettura: ci ho messo un mese e mezzo, e non si tratta di un libro particolarmente lungo. La narrazione è portata avanti da molti punti di vista diversi – per quanto siano predominanti quello di Kaizong (un nativo di Silicon Isle che torna sull’isola da impiegato di una corporazione americana) e quello di Mimi (una ragazza dei rifiuti) – e questo spesso non aiuta a districarsi in una trama che si fa sempre più complessa man mano che si avanza tra le pagine. Ho riscontrato anche una certa frammentarietà nella narrazione, che mi spiego col fatto che questo è l’unico romanzo pubblicato da Chen Qiufan, autore soprattutto di racconti. Il risultato è che a tratti ho avuto difficoltà a comprendere le motivazioni dei personaggi, e alcune spiegazioni scientifiche hanno reso il tutto più complicato. Sono sensazioni che conosco bene, perché purtroppo le ho provate ogni volta che mi sono approcciato al cyberpunk letterario – ma questo è probabilmente un limite mio e non del libro.
È davvero un peccato, perché tutto ciò inficia il giudizio complessivo di un libro che ha molte cose da dire. Lo scontro tra ricchi e poveri – che culmina in una vera e propria rivolta popolare – è ben costruito; la tematica ambientalista è evidente e attualissima; il racconto di un cinese che torna a casa dopo essersi formato negli Stati Uniti aggiunge diverse sfumature al racconto; e c’è soprattutto una critica agli effetti del capitalismo sfrenato e alla società ipertecnologica che ha costruito, che si sublima in passaggi come:
I solitari, i giocatori d’azzardo, i drogati, gli innocenti… appartati negli angoli più bui o luminosi della città, e che fossero milionari oppure spiantati, tutti si godevano una comoda vita all’insegna della tecnologia, cacciatori di stimoli e contenuti informativi senza precedenti nella storia della razza umana. Nondimeno, non erano felici; per una ragione sconosciuta, sembrava che la capacità di provare gioia fosse degenerata, amputata come un’appendice, anche se il desiderio di felicità resisteva, ostinato come i denti del giudizio.
Questa era un’epoca che non sapeva che farsene degli storici. I social network, le notizie in streaming, l’elaborazione informatica in tempo reale fornivano resoconti analitici più approfonditi e circostanziati, che erano anche più semplici da capire. In un certo senso, la storia era finita, almeno in quanto pratica narrativa caratterizzata dall’incertezza.
Questo era il prezzo del progresso: chi vince prende tutto.
C’è anche una parte più propriamente fantascientifica – e pure un mecha gigante, se è per questo – che ai miei occhi è risultata meno interessante di tutto il resto. Dopotutto lo stile dell’autore è stato definito “science fiction realism”, e mi accorgo che sempre più spesso è proprio questo che ricerco nella fantascienza. Resta comunque la grande capacità evocativa di Chen Qiufan (forse un tratto tipicamente orientale, chissà), capace di regalare brani come questi:
La Silicon Isle dei suoi ricordi era povera, ma vivace e piena di speranza. La gente era amichevole, ci si aiutava a vicenda. Allora, le acque degli stagni erano pulite e l’aria sapeva di salmastro. Si potevano raccogliere conchiglie e granchi sulla spiaggia. Un cane era solo un cane e le uniche cose che strisciavano per terra erano i bruchi. Oggi, invece, tutto era sconosciuto, estraneo, come se un baratro profondo si fosse aperto nella sua testa: da questo lato c’era la realtà, mentre dall’altro memorie irraggiungibili.
“I giovani pensano sempre che la Grande Muraglia si possa costruire in una notte”
“No, ma potrebbe crollare, in una notte”
Il nero inchiostro della notte non era ancora sbiadito e i lampioni per le strade rimanevano accesi, delineando il profilo della costa. Il terreno era disseminato di pozzanghere, forse residui di un acquazzone notturno, nelle quali il cielo color indaco si rifletteva fiocamente. All’orizzonte, si distingueva una tenue linea color rame, ardente di braci sopite, dilagante, annuncio di un’alba infuocata che presto avrebbe invaso il cielo orientale come una cortina di fiamme. Gli alberi stavano immobili nell’ombra, i rami calanti. Sarebbe stato un altro torrido, afoso giorno d’estate.
Al di là del giudizio sull’opera, sono contento di aver letto questo libro perché mi ha fatto affacciare su un mondo letterario per me inedito. C’è un bel pezzo (molto lungo) di Wired, risalente al 2021, con un ritratto di Chen Qiufan e della scena fantascientifica cinese. Ve lo consiglio se volete approfondire questi temi o la figura dell’autore, che di sé dice:
“I was a young boy who liked to ask, ‘Why?’ and so I turned to science for answers,” Chen says. “But when science couldn’t explain everything, I turned to science fiction.”
📽️ Visioni
Una rubrica in cui parlo dei film – vecchi o nuovi – che ho visto di recente.
Qualche giorno fa sono andato al cinema (evento che ormai capita solo un paio di volte all’anno) a vedere Il gladiatore II di Ridley Scott, e ho avuto modo di confrontare le mie basse aspettative con la realtà.

Chi mi conosce sa che Il gladiatore (il primo) è uno dei grandi film della mia vita. L’ho rivisto durante il lockdown e in quell’occasione scrissi un articolo in cui elencavo tutti i motivi per cui porto questo film nel cuore (in estrema sintesi: l’ho visto al cinema a undici anni, in un momento irripetibile). L’idea di un sequel mi è sembrata da subito pericolosa; eppure il primo trailer – bruttissimo, pieno di effetti posticci e con una micidiale canzone hip-hop in sottofondo – mi aveva messo addosso un perverso desiderio di andare a vedere il film.
Il gladiatore II è così sbagliato – e in così tante cose – che non so nemmeno da dove cominciare. Tralascio le incongruenze storiche, che non mi hanno mai disturbato più di tanto (anche se qui c’è una scritta in inglese che grida vendetta), e partirei da ciò che ho realizzato a metà visione: e cioè che stavo assistendo non a un sequel, bensì a un remake del film originale. È l’aspetto che mi ha irritato di più: il film non riesce a partorire una sola idea originale – e non dico in relazione al suo genere di appartenenza, ma proprio rispetto al primo capitolo. È tutto un ricalcare le stesse situazioni, gli stessi schemi narrativi, persino le stesse inquadrature del prototipo. È il postmoderno, bellezza – come sottolineato in questa bella recensione a firma di Alice Oliveri su The Vision, che vi consiglio di leggere – e naturalmente si tratta di un discorso che va oltre i confini di questa specifica opera, ma abbraccia l’intera industria culturale.
Come se ciò non bastasse, a tratti questo film assume pure i connotati di una parodia involontaria. Se c’è un pregio ne Il gladiatore II, è che farà rivalutare il primo a un sacco di persone. Ogni cosa soffre il confronto con la pellicola del 2000: la trama è confusionaria, con gli eventi che si succedono uno dopo l’altro senza logica; gli attori che tornano in scena appaiono spaesati (povero Derek Jacobi, che ha dovuto vestire di nuovo la tunica da senatore a quasi 90 anni); alcuni personaggi sfiorano il ridicolo tanto nella scrittura quanto nella caratterizzazione (gli imperatori gemelli, in due, non fanno mezzo Commodo di Joaquin Phoenix); le musiche di Harry Gregson-Williams sono anonime, ma dopotutto la colonna sonora del primo film è un pezzo di storia (e saggiamente Hans Zimmer se n’è tirato fuori); e quando sul finale parte Now We Are Free, be’ si configura il reato di lesa maestà. È incredibile quanto il film originale fosse un perfetto meccanismo a orologeria – pur con tutti i suoi difetti – e quanto questo sia lontano anni luce da quel modello – pur tendendo disperatamente verso di esso.
Vabbè, però almeno sarà un film spettacolare, no? Purtroppo anche qui Il gladiatore II mostra il fianco. Si apre con una grande battaglia (vi ricorda qualcosa?) di cui in rete ho letto lodi sperticate, ma che a me è sembrata fiacca e priva di pathos – oltre che affossata da una terribile computer grafica. Non va meglio con i combattimenti nell’arena, e qui si vede l’abisso tra i due film: nel primo Massimo combatteva contro delle tigri (vere), qui Annone se la vede con delle imbarazzanti scimmie fatte al computer; nel primo si metteva in scena la battaglia di Zama (scena clamorosa), qui c’è una naumachia che fa più che altro ridere; per tacere della battaglia decisiva. Nel primo film, soprattutto, c’era un crescendo che preparava lo spettatore a una serie di scene sempre più elaborate e spettacolari; qui invece ogni cosa è sbattuta in faccia senza criterio, tutto e subito, ignorando anche le più basilari regole cinematografiche.
Dopo la visione del film mi sono scambiato alcuni vocali con un amico, che si chiedeva se alla fin fine Ridley Scott non fosse sopravvalutato. Io credo che il suo contributo alla storia del cinema sia innegabile, ma che la parte deficitaria della sua produzione stia ormai prendendo il sopravvento su quella di qualità. È anche un regista che, a 86 anni, tenta ancora una volta la via del grande film epico, e per questo merita rispetto. Qualcosa però si è rotto, e forse le recenti dichiarazioni del direttore della fotografia de Il Gladiatore II spiegano molte cose.
Qualcos'altro in poche righe
Sono un millennial semplice: esce una serie che racconta le origini degli 883 e la guardo adorante. Hanno ucciso l'uomo ragno mi è piaciuta tantissimo, e non solo perché ho un bias generazionale potentissimo. Non conoscendo nel dettaglio la storia di Max Pezzali e Mauro Repetto, ho preso la serie come quello che in fondo è: un racconto di formazione e riscatto, che interseca bene i vari filoni tematici degli 883 degli inizi (la ribellione, la provincia, l'amicizia). Soprattutto, è una serie fatta benissimo - per scrittura, regia, scelta delle musiche - che conferma una volta di più i talenti dietro la produzione Groenlandia. Insomma, la classica serie che ti dispiace finisca.
Hanno ucciso l'uomo ragno è disponibile su Now.
🎵 Ascolti
Una rubrica in cui parlo di musica senza avere alcuna competenza.
Ma parliamo un po’ di Sam Fender. Ho sempre avuto l’impressione che questo cantautore inglese sia poco conosciuto qui da noi, ma magari mi sbaglio – anche se sotto ai suoi video ufficiali su YouTube, persino i suoi fan d’oltremanica si lamentano di quanto sia sottovalutato.
Mi sono reso conto di ascoltarlo da parecchi anni, addirittura dai tempi di Poundshop Kardashians, un singolo del suo EP di esordio del 2018. Fa un tipo di rock che attinge da varie fonti, ma in cui si sente soprattutto l’influenza di Bruce Springsteen; nei testi Fender è molto attento alle tematiche sociali (ha avuto un’infanzia complicata nei sobborghi di Newcastle), anche se sono le sue sonorità ispiratissime che mi hanno conquistato.
Questo mese è uscito People Watching, singolo che anticipa il suo terzo album, ed è stato come sempre un gran bell’ascolto. Discografia minima se volete cominciare ad ascoltarlo pure voi: Hypersonic Missiles e Will We Talk? (dall’album Hypersonic Missiles, 2019), Seventeen Going Under, Getting Started e The Dying Light (dall’album Seventeen Going Under, 2021).
🕹️ Backlog
Una rubrica in cui cerco di conciliare videogiochi e vita adulta.
Questo mese tutti hanno celebrato il ventesimo anniversario di Half-Life 2. Il gioco è stato addirittura riscattabile gratuitamente su Steam per un intero weekend. E allora sapete cosa ho fatto io? Ho (ri)giocato al primo Half-Life, che non toccavo dal 2005.

L’ho fatto per due motivi. Innanzitutto perché non l’avevo mai finito, e avevo quindi la curiosità di concludere la storia. E poi perché, nel mio programma di recupero dei titoli cult che mi sono perso in questi anni, c’è anche l’intenzione di giocare Half-Life 2, e mi sembrava sensato partire dal primo capitolo, anche solo per una progressione storica. Mi fa strano scrivere di Half-Life (1998, Valve), uno dei videogiochi più importanti di tutti i tempi4. Non so, è un po’ come scrivere di Casablanca o Quarto potere; ma visto che uno dei propositi di questa rubrica è anche parlare di videogiochi a chi li conosce poco o niente, ci proverò e pazienza se dirò cose che ad alcuni suoneranno scontate.
Half-Life è uno sparatutto in prima persona che ci mette nei panni di Gordon Freeman, uno scienziato del centro di ricerca di Black Mesa (una sorta di Area 51). In seguito a un esperimento scientifico andato male, uno squarcio dimensionale dà accesso alla struttura a degli alieni provenienti da un mondo chiamato Xen, e le cose cominciano ad andare a rotoli. Inevitabilmente l’esercito viene chiamato a insabbiare l’incidente, e Gordon si trova costretto a trovare una via di fuga da Black Mesa, lottando un po’ contro tutti.
La trama – firmata dallo scrittore Marc Laidlaw – ricalca in modo evidente svariati stereotipi della fantascienza, e non è di certo il punto di forza del gioco. Quello che all’epoca fu senza precedenti – e che oggi viene dato per scontato – è il modo in cui il giocatore viene immerso completamente nell’atmosfera di gioco: non sono presenti sequenze di intermezzo o filmati che portano avanti la trama, ma dall’inizio alla fine ogni cosa è vista attraverso gli occhi del protagonista. Ha fatto storia la scena d’apertura, con l’arrivo di Gordon alla base a bordo di un treno: mentre scorrono i titoli di testa, il giocatore può già muoversi all’interno della cabina, guardandosi attorno liberamente; e per i primi venti minuti non si spara un colpo, ma si esplorano i vari ambienti della base interagendo con i colleghi. Può sembrare banale, ma all’epoca non si era mai visto niente di simile.



C’erano tante cose – piccole e grandi – che avevo rimosso e che è stato un piacere riscoprire. Non ricordavo che il gioco è costruito come un unico immenso livello, con i soli titoli in sovrimpressione a far capire quando si passa da un capitolo all’altro. Non ricordavo che si potesse usare la torcia e che ci fossero così tante sequenze al buio, soprattutto nelle fasi iniziali (fun fact: avevo impostato la luminosità della Steam Deck su un valore molto basso per risparmiare batteria, e l’avevo dimenticata così: quindi il buio era davvero molto buio). Non ricordavo che ci fosse una lunga sezione in cui si fa su e giù da una monorotaia, alla ricerca del percorso giusto. Non ricordavo neppure che a un certo punto si viene catturati e si debba ricominciare senza armi, né che ci fosse uno scontro con un elicottero in un canyon (!). Soprattutto, non ricordavo tutte le diverse situazioni di gameplay: c’è tanta azione, ma anche diversi puzzle ambientali da risolvere, momenti di esplorazione e intere sequenze platform basate su salti millimetrici (uno dei pochi difetti che mi sento di imputare al gioco). Ci ho messo 16 ore a portarlo a termine, e Half-Life mi ha stupito per il modo in cui tiene sempre alta la sfida, regalando al giocatore stimoli diversi fino all’ultimo momento.
C’è però un aspetto che mi ha sconvolto, e tra tutti gli elementi di questo titolo è forse quello meno celebrato: il comparto sonoro. Ho giocato ad Half-Life su Steam Deck, in genere sul divano in coabitazione con mia moglie, per cui ho usato le cuffie tutto il tempo: forse questo mi ha consentito di cogliere fino in fondo il lavoro pazzesco svolto sul sound design, tanto più che si tratta di un gioco in cui la musica è quasi del tutto assente. I versi degli alieni, il rumore viscerale di alcuni di loro quando muoiono, i passi che rimbombano nei condotti di aerazione, gli spari in lontananza nelle sequenze all’aperto: sono spesso i suoni a guidare il giocatore, contribuendo all’incredibile senso di immersività che pervade il titolo dall’inizio alla fine.
Avevo pochi dubbi al riguardo, ma rigiocandoci li ho fugati del tutto: Half-Life è un capolavoro, e merita il posto che occupa nella storia dei videogiochi. È divertente, impegnativo, violento, a tratti spaventoso, pieno di tensione, ma anche di momenti ironici, e ti porta dentro il suo mondo come pochi altri. Rigiocarci a distanza di anni è stata una bellissima esperienza, anche perché mi ha consentito di collocarlo nella giusta prospettiva storica. Ho anche rivisto il documentario pubblicato su YouTube l’anno scorso, in occasione del venticinquesimo anniversario del gioco: un’ora di tempo ben investita se volete approfondire come è nata questa pietra miliare dei videogiochi.
Half-Life è disponibile su PC tramite Steam.
Qualcos'altro in poche righe
Un piccolo titolo che mi dispiaceva far passare sotto silenzio: Stacking (2011, Double Fine Productions). Si tratta del gemello del Costume Quest di cui ho parlato il mese scorso, visto che sono nati nelle medesime circostanze (e si vede anche dai menù e da alcune scelte di gameplay). In un mondo abitato da matriosche (!), il piccolo Charlie deve ritrovare i suoi fratelli costretti ai lavori forzati dal malvagio Barone. Per sua fortuna è la più piccola delle matriosche e può entrare all'interno delle bambole più grandi acquisendo poteri speciali. Un simpaticissimo puzzle game con elementi che ricordano le vecchie avventure grafiche e diversi modi per completare le varie sfide proposte; alla lunga diventa un po' monotono, certo, ma quando succede il gioco finisce (l'ho completato in circa 8 ore). Merita di essere riscoperto.
Stacking è disponibile su PC (Steam, GOG) e Xbox (incluso nel Game Pass).
🔗 Link
Una raccolta dei migliori contenuti in cui mi sono imbattuto in giro per il web questo mese.
- I giovani (chi ha tra i 20 e i 35 anni, quindi a breve uscirò da questa categoria) vanno sempre di più al cinema, e non solo a vedere cinecomic. Una interessante analisi di Gabriele Niola su Il Post.
- Il 21 novembre ha chiuso BadTaste, un sito italiano di cinema che esisteva da venti anni e che io avevo conosciuto nel 2006 o giù di lì. Per lunghissimo tempo è stato il mio punto di riferimento online per il cinema e, anche se negli ultimi anni non lo frequentavo più così tanto, la notizia della sua chiusura mi ha un po’ immalinconito. Lorenzo Fantoni ha approfondito la questione nell’ultimo numero della sua newsletter Heavy Meta.
- Grayson Morley ha una newsletter dedicata ai videogiochi chiamata Backlog, da cui ho
rubatopreso ispirazione per la mia rubrica omonima. In questo numero fa delle belle riflessioni sulla necessità di giocare insieme – non online, ma nella stessa stanza, fianco a fianco.
Si chiude qui questo aggiornamento monumentale. Mesi così ricchi non capitano sempre, tranquilli. Ci risentiamo in tempo per gli auguri di buon anno!
- Scrollo ancora più di quanto vorrei Facebook e Instagram, dove ormai devo fare lo slalom tra contenuti inutili per trovare quelli delle persone che seguo. X l’ho abbandonato un anno fa, anticipando il trend delle ultime settimane. Per un attimo ho pensato di saltare sul carro di Bluesky, ma poi mi sono detto che non avevo bisogno dell’ennesima piattaforma da imparare a usare da zero. Social che invece sto usando con una certa soddisfazione: YouTube, dove mi sono iscritto a diversi canali e ho persino cominciato a commentare alcuni video; Threads, che dopo mesi e mesi ha capito cosa mi interessa (libri, scrittura, videogiochi) e mi restituisce finalmente un feed interessante; e Reddit, che per anni ho evitato come la peste e invece mi sta sorprendendo con la sua struttura a forum da vecchio Internet. ↩︎
- Si tratta del volume di giugno 2023 della collana regolare Urania, ovviamente ormai reperibile solo usato. Curiosamente, Marea tossica era già stato pubblicato nel 2022 nella collana “Urania. 70 anni di futuro”; anche questa edizione si trova facilmente nel circuito su eBay e simili. Il romanzo, comunque, è presente sia in cartaceo che in ebook nel catalogo Oscar Mondadori. ↩︎
- Il libro è tradotto dal cinese da Bendetta Tavani. L’edizione che ho letto comprende una nota che racconta le difficoltà nel tradurre il testo originale, che presenta una grande varietà di lingue e topoletti. ↩︎
- Ha vinto più di 50 premi come “gioco dell’anno” ed è stato inserito più volte al primo posto nella lista dei titoli più belli di sempre da riviste di settore. ↩︎